Un testo per tecnici (psichiatri, psicologi, testisti, operatori della psiche…) ma anche per sfatare l’idea che la schizofrenia sia qualcosa di inconoscibile, di spaventoso/mostruoso, pur interessando 24 milioni di persone sul totale della popolazione mondiale, circa l’1,5%.
Cos’è la schizofrenia?
E’ un processo umano che si svolge a fasi, non preordinate, ma a un certo punto riconoscibili, talvolta invece no, confuse tra loro.
Con questo testo si entra, attraverso il test di Rorschach e l’interpretazione delle sue “macchie” dentro il funzionamento di una mente schizofrenica, nel bene e nel male, nell’acuzie e nell’intorpidimento, cogliendone tutte le sfaccettature sino a considerarla solo un evento umano che soffre più di altri di fronte al caos dei messaggi contraddittori che ci arrivano continuamente, non sapendo adattarvisi. Lo studio accurato di 124 protocolli Rorschach di 118 soggetti sofferenti di schizofrenia ci porta all’interno del suo funzionamento.
Ma il test di Rorschach permette di diagnosticare la schizofrenia? Permette di escludere che un soggetto sia schizofrenico? Può dare indicazioni sulla sua evoluzione e sulle possibilità terapeutiche? Il test di Rorschach rispecchia il modo in cui l’individuo si rapporta alla realtà che, come le tavole del test, è spesso ambigua. Il soggetto cerca di coglierla nel suo insieme, o di limitarsi ad una parte di essa che per prima lo coinvolge, o ancora cerca di approfondire questioni marginali e poco evidenti? Nel primo caso si affida ad un’impressione, o si cura di fare una sintesi accurata dei diversi elementi o ancora li assembla in modo superficiale? Usa la logica pura, l’intuizione o si fa guidare dalle emozioni? O anche da più di queste cose assieme? Se la cava conformandosi al luoghi comuni o cerca di pensare in modo critico e originale? Questi interrogativi valgono per la persona comune, ma anche per il ricercatore, lo scienziato che, su una questione ambigua, irrisolta deve e vuole formulare una teoria.
Ma, come lo scienziato ricercatore anche lo schizofrenico affronta, tutti i giorni, una realtà per lui ambigua, difficile da padroneggiare. Il disturbo fondamentale della crisi schizofrenica è l’impossibilità di stabilire cosa, in una data situazione, sia rilevante e pertinente: la schizofrenia acuta si configura come una crisi epistemologica personale, un modo estremo dell’essere umano di reagire alla complessità e alla contraddittorietà dell’esistenza, una sorta di crisi di senso. Per difendersi dal caos che ne deriva lo schizofrenico introduce meccanismi di difesa contro questo caos: limitare il campo di interessi, razionalizzare in modo patologico, o vivere in modo puntiforme, istante per istante.
Ma anche il ricercatore, più ancora dell’uomo comune, di fronte ad un materiale ambiguo deve prendere in considerazione aspetti inconsueti, uscire dagli schemi ma, a differenza dello schizofrenico che pensa in modo iperinclusivo, riesce a selezionare tra le nuove forme quelle valide, a prezzo talvolta di finire nel caos: può difendersi da ciò limitando le sue prospettive, rifugiandosi in pregiudizi teorici o accontentandosi di risultati frammentari.
Ecco perché i tre campi da noi affrontati ovvero l’interpretazione del Rorschach, lo studio della schizofrenia, i problemi epistemologici che si riflettono sulla nostra stessa ricerca giungono come a sovrapporsi, arrivando così ad integrare tre prospettive, ciascuna delle quali aiuta ad illuminare le altre due.
Scritto da:
Carola Palazzi Trivelli e Silvia Torresin
febbraio 2017
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Descriviamo l’esperienza di un gruppo transculturale, non psicoterapeutico, piuttosto di sostegno ed accoglienza al trauma della migrazione, teso a favorire una più veloce integrazione.
Parliamo di un gruppo composto di persone siriane, giovani e mature, donne e uomini, talvolta anche bambini, seduti in cerchio con una mediatrice culturale di lingua araba, una conduttrice di lingua italiana ed un’osservatrice silente.
In questo gruppo si parla arabo, e la mediatrice traduce in italiano, mediando tra le culture e tra differenti codici linguistici ed affettivi. Se nel gruppo si parla di legami con il paese d’origine, la Siria, attraverso la madrelingua-arabo, la mediatrice (marocchina, dunque parlante l’arabo ma non siriana) restituisce nel gruppo un’idea comprensiva e comprensibile ma leggermente dissimile da quella originariamente espressa: si può discutere cercando di capirsi.
Nel gruppo si parla continuamente di violenze subite, come singoli e come cultura d’appartenenza. Violenze della guerra, violenze delle separazioni obbligate, infine violenze dell’assoggettamento e dell’adesione culturale.
Si parla anche di legami, familiari ma soprattutto culturali, quest’ultimi contengono i legami sociali e familiari e le convinzioni religiose, ma non solo.
Sono legami violenti, in quanto hanno forza, sono raccontati con grande forza, e possono trattenere (e spesso trattengono) dall’elaborazione del trauma.
Trauma, inteso come esperienza di rottura dell’involucro psichico, accaduta spesso in modo violento, che impedisce, o può impedire psichicamente, di ridare un senso, un progetto alla propria vita distrutta.
Il legame è violento perché è eccessivo, (vis etimologicamente nella nostra cultura: ciò che vince, opprime, distrugge) e perché è illusorio, contiene ricordi illusori, di un mondo che non c’è più. Il legame è dunque, in questo senso, irreale.
Raccontiamo chi sono queste persone e come mai si trovino ad accettare, con piacere e costanza, di partecipare ad un gruppo che nasce comunque da un’idea europea di condividere per soffrire di meno. A questo proposito ci siamo interrogate se anche quest’idea di gruppo non sia già una violenza, che lega, opprimendo. Ci siamo risposte, per il momento, di no.
Le persone partecipanti al gruppo sono siriani giunti in Italia (e dunque in Europa) in fuga da guerra e distruzione nella loro Siria dove sono nati e cresciuti. Arrivano attraverso “corridoi umanitari” che partono da campi profughi, soprattutto in Libano, ma anche in Palestina, per qualcuno.
Scritto da: Dott.ssa Chiara De Marino.
Tratto da "Le voci della città", tre incontri di sociodramma in tre piazze cittadine.
A cura dell’Associazione Centrodonna Evelina De Magistris.
Livorno 2006.
“Ancora mi emozionano certe voci,
Ancora credo nel guardare negli occhi,
Ancora ho in mente di cambiare qualcosa”
Che succede quando la gente si incontra per dire e per dirsi?
Che segreti nascosti raccontano queste bocche?
Segreti di uno, di pochi, di tutti?
Questo libro, racconti, ci aiuta ad ascoltare?...!
Il sociodramma è la bussola che orienta questi racconti che aprono uno spazio per transitare tra il molteplice,
il gruppo e il singolo, che costruiscono storie dove il protagonista è un corpo, un vincolo, un gruppo o i
cittadini.
Questo lavoro, concepito in un contesto attualmente inusuale (la piazza), raccoglie voci e testimonianze di
persone che abitano nello spazio-tempo della semi-realtà (sociodramma), dove si cerca di apprendere nuovi
percorsi.
Si è preso contatto con la “città soggettiva”, cioè la città degli individui, delle relazioni, delle dimensioni
interpsichiche e intrapsichiche, dei ruoli individuali e delle loro interrelazioni. Del sentire e dell’agire.
Lo spazio fisico della città, la sua urbanistica, la sua architettura, determinano luoghi e modi d’incontro/non-
incontro e modalità di fruizione, di essere/sentire la città, spesso svincolati dal desiderio o bisogno del singolo
individuo/gruppo. Senza più “anima urbana”, ognuno si scinde
dalla partecipazione effettiva alla propria area d’intervento, delegando alle Istituzioni il compito di creare la
“città felice”.
Si sono ascoltate, si è data voce, ai desideri, sogni, alle richieste di chi vive questa città per come si offre, e
per come ciascuno vorrebbe che essa fosse, nei suoi spazi pubblici, nei suoi luoghi d’incontro, nelle sue
piazze, nelle sue panchine.
Il creatore di questa disciplina, Jacob L. Moreno, 1889, medico, giunse alla conclusione che
l’incontro fosse la base di tutte le relazioni umane, tanto nelle relazioni personali, familiari,
quanto nelle relazioni sociali più ampie. Fu un pioniere nel pensare che, molte volte, non
sono le persone ad esser malate, bensì il vincolo tra di loro. In tal modo Moreno diede
inizio al sociodramma, alla sociometria.
Il sociodramma si basa sull’ipotesi implicita che tutto il gruppo formato dal pubblico si sia
organizzato secondo ruoli sociali e culturali ai quali partecipano – in qualche modo – tutti gli
individui caratterizzati dagli stessi atteggiamenti culturali. Per questo non ha grande importanza
sapere chi sono gli individui, chi compone il gruppo o quale ne sia il numero. In questa occasione è il
gruppo nel suo insieme che deve occupare la scena per rivelare i propri problemi.
L'inferno dei vivi non è qualcosa che ci sarà: se esiste, è ciò che è già qui, l'inferno in cui viviamo tutti i giorni, che
formiamo stando insieme. Esistono due modi per non soffrire. Il primo è semplice per la maggioranza delle persone:
accettare l'inferno e mettersi da parte fino al punto da smettere di percepirlo. Il secondo è rischioso e richiede
attenzione e apprendimento continuo: cercare di sapere riconoscere chi e cosa, dentro l'inferno, non è inferno e
proteggerlo e dargli spazio.
ITALO Calvino, “Le città invisibili”, ed. Mondadori
Scritto da: Dott.ssa Vanda Druetta
E' uso in psicologia servirsi di metafore e di analogie per esprimere contenuti non altrimenti esprimibili. Ne abbiamo tutti esperienza.
L' introduzione di concetti quali campo, matrice, rete, ruoli, elaborati in ambiti scientifici differenti, rimandano alla necessità di effettuare delle trasposizioni analogiche da una scienza all'altra con buon vantaggio per la psiche impegnata a riflettere su se stessa.
Nella prospettiva epistemologica della complessità descrivere la natura della psiche e la sua vita comporta a volte il rischio di perdere stimoli e contenuti che per varie ragioni di incompatibilità relativa o assoluta con la coscienza vengono respinti o vengono privati del loro valore evocativo e della necessaria ulteriorità e che non potrebbero essere superati se non attraverso passaggi analogici.
Le analogie, e riferendomi allo psicodramma, è meglio pensare alle immagini concretizzate col gioco, con il loro dire molto di più e contemporaneamente molto di meno , inseriscono il pensiero in un ventaglio molteplice e multidirezionale di collegamenti, mantenendo il contatto tra la dimensione razional/scientifica e la dimensione trascendente del misterioso.
Scritto da: Dott.ssa Vanda Druetta
Secondo l’ottica di ricerca junghiana, ogni uomo contiene in sé una trama il cui intreccio è costituito dai tratti individuali e dal senso storico e sociale del suo appartenere al collettivo. Lo svolgersi di ogni esistenza avviene in un insieme di relazioni preesistenti ed attuali, in cui sono dati e si sviluppano molteplici legami ,consci ed inconsci, personali e transpersonali .
Quindi è dalla appartenenza ad una storia relazionale che ciascun individuo beneficia di una quantità e di una qualità di sicurezza e di possibilità di dare un senso agli eventi che accadono nell’incontro con l’altro e di istituire e mantenere la coerenza del senso dell’identità.
Nei gruppi in cui ci troviamo a nascere e a vivere si crea lo spazio per reagire ad una situazione specifica con l’altro. Essi ci offrono un insiemi di legami emotivi e affettivi, ci stimolano l’assunzione di ruoli o modelli di rappresentazioni di noi , degli altri e dei contesti e prevedono o ci prescrivono l’autonomia, la libertà, l’individualità.
Si tratta di un processo complesso in cui, soltanto quando si crea una congiunzione nelle progettualità dei protagonisti delle relazioni, la riflessione reciproca diventa trasformativa e crea nel presente le condizioni per un divenire qualcosa che ancora non è.
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